Modificare il microbiota materno per prevenire
disturbi emotivi nei figli di madri obese
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 12 marzo 2022.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
L’obesità
materna è diventata un problema di salute pubblica già da alcuni anni in molti
paesi del mondo occidentale, soprattutto perché questo tratto patomorfologico è
associato nelle stime epidemiologiche a un significativo aumento del rischio nella
prole di disturbi neuroevolutivi e di disturbi
psichiatrici, anche in età adulta.
Si ritiene,
sulla base di numerose evidenze sperimentali, che l’obesità della madre
disturbi le interazioni tra cervello e microbiota intestinale. Tali alterazioni,
da oltre un decennio, sono state messe in relazione con tendenze affettive all’umore
depresso e con alterazioni dell’equilibrio emotivo predisponenti ai disturbi
dello spettro dell’ansia. Nonostante siano stati condotti numerosi studi, una
reale stima dell’impatto dell’obesità materna sul metabolismo delle cellule
dell’epitelio intestinale, del fegato e del cervello non è stata ancora
ottenuta. A dispetto dell’accumularsi di evidenze dell’importanza del ruolo dei
microrganismi della madre durante la gestazione e il puerperio, l’effetto
longitudinale della nutrizione materna sul metabolismo della prole, per ciò che
concerne l’asse cervello-intestino, a differenti età non è stato finora
analiticamente indagato.
Daniel E.
Radford-Smith e colleghi hanno affrontato il problema studiando sul topo l’efficacia
protettiva dell’esposizione perinatale a probiotici contro l’incremento di
comportamenti equivalenti all’ansia indotti dall’obesità materna. La conferma
dell’effetto protettivo è stata seguita dal rilievo del mantenimento della
protezione in età adulta, verosimilmente mediante l’incremento di metaboliti
energetici cerebrali e di butirrato nell’intestino. Lo studio, nel suo insieme,
ha ottenuto risultati molto significativi, che è opportuno conoscere.
(Radford-Smith D. E. et al., Modifying the maternal microbiota
alters the gut-brain metabolome and prevents emotional dysfunction in the adult
offspring of obese dams. Proceedings
of the National Academy of Sciences USA 119 (9): e2108581119, 2022).
La provenienza degli autori è la seguente: Department of Pharmacology,
University of Oxford, Oxford (Regno Unito); Department
of Chemistry, University of Oxford, Oxford (Regno Unito);
Department of Psychiatry, Warneford Hospital, University
of Oxford, Oxford (Regno Unito); Laboratory of
Psychiatric Neurobiology, I. M. Sechenov First Moscow
State Medical University, Moscow (Russia).
Prima di
definire l’esistenza di un’asse cervello-intestino con un regime fisiologico di
scambio di segnalazioni, la ricerca aveva evidenziato la possibilità che il
microbioma intestinale in condizioni particolari di leaky gut potesse
influenzare il funzionamento mentale. Proprio dallo studio del leaky gut,
ossia di un intestino che attraverso piccole falle consente il passaggio di
molecole dal suo lume al sangue, è cominciata la ricerca sulle cause
intestinali, inizialmente solo nella categoria dell’infiammazione e dell’autoimmunità,
dei disturbi mentali. Per introdurre il lettore non specialista all’argomento,
si riprendono alcuni brani tratti da un nostro aggiornamento sulla materia, quando
costituiva un campo del tutto nuovo.
Il primo
brano prende le mosse dai centomila miliardi di batteri intestinali presenti in
ciascuno di noi[1]:
Salute
mentale e integrità dell’intestino.
Riflettere sui rapporti fra cervello ed altri organi ed apparati
dell’organismo, ci ricorda che noi siamo un “sistema di sistemi” che è, a sua
volta, immerso in un ambiente. Dopo queste premesse, se le considerazioni non
vertono sulle interazioni con il mondo fisico-chimico e i costituenti della
nicchia ecologica, molto probabilmente si indirizzeranno verso oggetti di
studio tipici delle relazioni interpersonali e sociali. Quasi mai si parla
della dimensione microbiologica del nostro ambiente esterno ed interno,
ignorando il fatto che siamo immersi in un mondo di microrganismi, che
includono i circa 100.000 miliardi di batteri che ospitiamo nel nostro
intestino.
Proprio da questi batteri
intestinali è venuto un collegamento fra apparato digerente e funzioni
psichiche, a lungo e invano cercato nell’adozione da parte del sistema nervoso
centrale e di popolazioni cellulari dell’apparato digerente di molecole di
segnalazione comuni, quali i neuropeptidi. Ad esempio, negli anni Settanta si
diede importanza al suggestivo riscontro nei neuroni del peptide vasoattivo
intestinale (VIP), scoperto da Said e Mutt, del quale
oggi si sa che, oltre ad essere un modulatore neuronico ed endocrino, è un
agente anti-infiammatorio endogeno, rilasciato dall’innervazione e da cellule
immunitarie attivate, che svolge il suo ruolo mediante il legame a specifici
recettori di microglia, macrofagi, cellule dendritiche e linfociti T.
Il tratto digerente e il cervello
sono dunque strettamente associati, non solo a motivo dei noti effetti
dell’alimentazione sulle funzioni del sistema nervoso centrale, ma precisamente
per ragioni che si possono far risalire alla flora batterica del canale
alimentare.
In condizioni fisiologiche, il
tratto digerente è separato dal compartimento ematico da una parete selettiva e
virtualmente impermeabile di cellule, che non consente il passaggio di batteri
e sostanze tossiche dal lume intestinale al sangue. Malattie, condizioni
fisiopatologiche e trattamenti terapeutici, quali radioterapie o un eccessivo e
talvolta improprio uso di antibiotici e antidolorifici, come si vede dall’elenco
sotto riportato, possono compromettere l’integrità di questa barriera
cellulare, determinando la condizione di un intestino con “falle” (leaky gut) che consentono la
dispersione, la sfuggita nel torrente circolatorio, di batteri e molecole
provenienti dalla superficie interna dell’intestino.
CONDIZIONI
O PATOLOGIE PREDISPONENTI
O CAUSANTI “LEAKY GUT”
Abuso di alcool
Malattie autoimmuni
Infezioni (ad esempio da virus HIV)
Malattie infiammatorie
Malattia infiammatoria intestinale
Ipersensibilità al glutine
Gravi allergie alimentari
Organismo stremato
Stress psicologico
CAUSE
IATROGENE
Terapia Radiante
Terapie antibiotiche protratte
Terapie antidolorifiche protratte
Dopo questa
introduzione sul leaky gut, si propongono gli studi pionieristici di Michael Maes:
Un interessante studio, pubblicato
su Acta Psychiatrica Scandinavica, è
stato condotto allo scopo di verificare l’esistenza di un reale rapporto fra “leaky gut” e disturbi psichici, da un
gruppo di cui fa parte Michael Maes, uno psichiatra
che svolge attività di ricerca in Australia e Tailandia. Forse il rilievo più significativo
riportato è che circa il 35% dei partecipanti affetti da depressione presentava
segni ematochimici del passaggio di batteri intestinali nel compartimento
ematico. La proporzione è tale da consentire di escludere la coincidenza
casuale, tuttavia non è facile concepire ipotesi sui processi patogenetici da
indagare per scoprire i meccanismi molecolari direttamente responsabili degli
effetti psichici. In generale, i batteri che dall’intestino giungono nel
sangue, possono attivare risposte autoimmuni e infiammatorie, e da tempo tali
reazioni sono state associate a disturbi depressivi, abbassamento del tono
dell’umore e sensazioni psico-fisiche di stanchezza, fino alla spossatezza. Nel
campo della ricerca psicopatologica e psicosomatica non sono pochi coloro che
considerano la depressione una “malattia infiammatoria”, ma rimane da stabilire
se realmente la patogenesi dei disturbi depressivi implichi in ogni caso
processi propri dell’infiammazione. Michael Maes è
abbastanza prudente al riguardo, perché si limita ad ipotizzare una
partecipazione dell’infiammazione originata da batteri intestinali al
mantenimento di uno stato infiammatorio diffuso che nella depressione è più
elevato che di norma[2].
In altri termini, un ruolo concausale o in grado di peggiorare un quadro
fisiopatologico sviluppatosi per cause diverse e indipendenti.
Segue, poi, una sintesi dei
risultati sperimentali ottenuti per i vari microrganismi indagati, compreso Helicobacter
pylori.
1.1. Lactobacillus
helveticus e Bifidobacterium
longum. La somministrazione di un misto probiotico di questi
due batteri a volontari sani, ha prodotto uno dei risultati più interessanti:
la riduzione di ansia e depressione. Non si ha ancora una precisa traccia per
cercare di identificare le possibili virtù terapeutiche di queste due specie
batteriche, ma sono state proposte alcune ipotesi di lavoro.
1.2. Lactobacilli.
Sono state studiate le feci di studenti in apparente buona salute, senza
disturbi neurologici, psichiatrici o gastroenterici, durante un esame che
comportava un alto livello di stress.
La quota fecale di lactobacilli, comparata con quella rilevata in periodi di
bassa tensione durante lo stesso semestre, era molto più bassa. Questo dato
suggerisce un legame fra stress e
composizione microbica della flora batterica intestinale, ma il preciso
rapporto rimane da determinare.
1.3. Batteri
Probiotici (In particolare: B. animalis subsp. lactis, Streptococcus thermophilus. L. delbruekii subsp. Bulgaricus, L. lactis subsp. lactis). Donne
in apparente buona salute che consumano yogurt contenente questi microrganismi,
presentavano al neuroimaging
un’attività decisamente minore in regioni del cervello che elaborano le
emozioni e le sensazioni fisiche. Non è stato ancora possibile stabilire se e
in quale misura questi effetti possano considerarsi benefici. Lo shift osservato nell’attività
dell’encefalo è netto, notevole e, perciò, molto interessante; tuttavia, i
possibili meccanismi che lo hanno determinato sono ancora del tutto ignoti.
1.4. Helicobacter pylori. Si è ipotizzato che
uno dei batteri con potenzialità patogena che passi nel sangue attraverso le
soluzioni di continuità della parete cellulare intestinale, sia l’Helicobacter pylori, ritenuto fra le cause
principali di ulcera peptica. Qualche cenno alla storia recente della ricerca
su questo microrganismo sarà utile per
comprendere la portata delle nuove acquisizioni.
I medici australiani Barry Marshall
e Robin Warren per primi negli anni Ottanta lo indicarono come agente causale dell’ulcera
peptica, quando l’eziologia microbica di questa patologia era considerata
un’eresia. Helicobacter pylori è uno
dei pochi batteri in grado di moltiplicarsi nell’ambiente acido dello stomaco.
L’introduzione in clinica del trattamento antibiotico dell’ulcera peptica in
breve ridusse del 50% i casi di erosione della mucosa indotta da microrganismi.
Martin Blaser, che ha cominciato a studiare Helicobacter pylori come patogeno oltre 25 anni fa, dopo aver
compreso che si trattava di un commensale,
con i suoi colleghi della New York University, nel 1998 pubblicò uno studio in
cui si mostrava che nella maggior parte delle persone il batterio svolge un
ruolo di notevole utilità per l’organismo, contribuendo alla regolazione dei livelli
di acidità gastrica. Infatti, se il pH gastrico diventa troppo basso e perciò
inospitale per Helicobacter pylori, i
suoi ceppi che contengono il gene cagA producono proteine che inducono le cellule oxintiche dello stomaco, secernenti acido cloridrico, a
ridurre il flusso. Nelle persone suscettibili, tuttavia, è proprio cagA a rendersi
responsabile dello sviluppo di ulcere.
Una decina di anni dopo, Blaser e colleghi accertarono e dimostrarono che Helicobacter pylori, oltre a regolare
l’acidità gastrica, svolge un ruolo nella regolazione dell’appetito alimentare
producendo la grelina, che segnala al
cervello il bisogno di cibo inducendo fame, e la leptina che, fra gli altri compiti, ha quello di segnalare la
sazietà[3].
Nel 2011 Blaser ha pubblicato uno studio che
confermava il ruolo del batterio nella regolazione dei livelli di grelina, in particolare determinando con
la sua riduzione dopo un pasto il cessare dell’appetito. Si è stimato che due o
tre generazioni fa l’80% degli Americani ospitava Helicobacter pylori, mentre ora solo il 6% dei bambini risulta
positivo al batterio. Si comprende che nel 2012 sia stata avanzata l’ipotesi
che una parte non irrilevante dell’enorme diffusione di casi di obesità
infantile in America e in Europa sia dovuta all’eradicazione di Helicobacter pylori mediante
antibiotici.
May
A. Beydoun e colleghi del National Institute on
Aging, basandosi su evidenze che associavano ridotte prestazioni cognitive alla
sieropositività all’Helicobacter pylori,
hanno condotto uno studio per verificare in due ampi campioni della popolazione
statunitense, dai 20 ai 59 anni e dai 60 ai 90, la possibile influenza del
batterio, anche in rapporto al sesso e a caratteristiche antropologiche[4].
La stima di sieropositività si è basata su due misure (IgG e IgG CagA) mentre le prestazioni cognitive sono state valutate
mediante batterie di test neuropsicologici specifiche per l’età. Veramente
rilevante la riduzione di prestazione cognitiva nei sieropositivi del gruppo
60-90, rispetto ai coetanei sieronegativi, nelle prestazioni di memoria verbale
(ricordo di una storia e correzione di elementi erronei). In
tutti e tre i gruppi antropologici principali (cosiddette razze) in cui è stato ripartito il campione, in entrambe le
categorie di età e in tutte le aree della cognizione esplorate dalle prove
impiegate, si sono registrati risultati notevolmente peggiori nei sieropositivi
all’Helicobacter pylori. Tali
risultati sembrano fugare ogni dubbio sulla reale capacità del batterio di
incidere negativamente, tanto che gli autori del lavoro concludono
lapidariamente che la sieropositività si associa a diminuite capacità cognitive
degli adulti negli USA, ed auspicano ricerche longitudinali per porre in
relazione questi risultati specificamente con il declino cognitivo, con la
demenza e la malattia di Alzheimer.
Quest’ultima questione è
particolarmente significativa, perché alcune evidenze di laboratorio indicano
che le cellule di questo batterio che finiscono nel sangue per sfuggita da un
intestino non perfettamente continente, o leaky
gut, sono in grado di attraversare la barriera ematoencefalica e penetrare
nello spazio parenchimale dell’encefalo, dove possono aggregarsi con i peptidi
β-amiloidi che formano le placche tipiche della malattia di Alzheimer. In
particolare, sembra che l’aggregazione batterica inneschi o incentivi processi
di accumulo di materiale β-amiloide, verosimilmente partecipando ad uno
dei processi principali che portano alla neurodegenerazione alzheimeriana.
Se, come abbiamo ricordato, in età
infantile solo il 6% è portatore del batterio, nelle età successive la
percentuale sale notevolmente: i National Institutes of Health
(NIH) hanno recentemente fornito la stima del 20% per le persone al di sotto
dei 40 anni e di circa il 50% per coloro che abbiano superato i 60 anni. È
ovvio che, pensando all’accresciuto rischio di obesità infantile senza il
batterio, si vorrebbe aumentare il numero dei portatori ma, se si dimostrerà
realmente un contributo di Helicobacter
pylori alla patogenesi dell’Alzheimer in un numero significativo di casi,
si potrebbe voler ulteriormente abbassare la quota dei portatori a scopo
preventivo. Per tali ragioni, la ricerca in questo campo dovrebbe essere
intensa ed avere il sostegno delle principali fonti di finanziamento
internazionale, almeno fino a quando si saranno date risposte certe agli
interrogativi principali.
Dopo questa lunga introduzione al
problema dell’influenza della flora microbica sulla base cerebrale delle
facoltà psichiche, che a sua volta introduce al problema dell’influenza del metaboloma microbico intestinale della madre sul prodotto
del concepimento, possiamo ritornare allo studio qui recensito.
Daniel E.
Radford-Smith e colleghi hanno verificato se l’apporto perinatale di un
probiotico multispecie fosse in grado di mitigare il
comportamento emotivo anomalo nella prole di madri obese in età giovanile e
adulta. La realizzazione di un profilo metabolomico (untargeted NMR-based)
e l’analisi dell’espressione genica attraverso l’asse cervello-intestino sono
state poi usate per indagare la biologia sottostante i cambiamenti
comportamentali nelle madri e nella loro prole.
Un’alimentazione
prolungata con dieta ad elevato contenuto di grassi, riduceva l’abbondanza
nella madre di acidi grassi a catena corta nelle cellule intestinali, aumentava
i marker di infiammazione periferica e riduceva l’abbondanza di metaboliti
neuroattivi nel latte materno durante il periodo di
nutrizione della prole da parte della madre.
La prole delle madri murine obese
mostrava una quota notevolmente accresciuta, rispetto a quella nata da madri
non obese, di comportamento considerato equivalente all’ansia umana. Questa
manifestazione di disturbo era significativamente evidente tanto nell’età
giovanile, ovvero nella verifica postnatale al ventunesimo giorno dalla nascita
(PND 21) quanto nell’età adulta, testata al centododicesimo giorno dalla
nascita (PND 112). L’esposizione perinatale ai probiotici era in grado di
prevenire le manifestazioni degli equivalenti psicomotori dell’ansia sia al PND
21 che al PND 112.
Il trattamento probiotico delle
madri accresceva l’acido butirrico dell’intestino tanto quanto l’acido
lattico del cervello, e aumentava il livello di espressione nella corteccia
prefrontale di un importante marker del metabolismo glicolitico
degli astrociti: PFKFB3.
I ricercatori hanno verificato che
l’espressione di PFKFB3 era strettamente correlata con l’aumento nell’intestino
del butirrato sia nell’età giovanile sia nell’età adulta della prole.
L’obesità materna riduceva l’espressione
di sinaptofisina nella prole di età adulta,
mentre l’esposizione perinatale a probiotici accresceva l’espressione di BDNF (brain
derived neurotrophic factor).
Daniel E.
Radford-Smith e colleghi hanno poi cercato di stabilire le basi della
resistenza a sviluppare comportamenti murini equivalenti dell’ansia umana e
correntemente considerati nella ricerca elementi prodromici o accessori dei
tratti caratteristici di equivalenti comparati della depressione, come di altri
disturbi psichiatrici che decorrono con alterazione del tono dell’umore. In
questa osservazione dei rapporti tra dato biochimico e comportamentale, i
ricercatori hanno rilevato che tanto la prole all’età del PND 21, quanto quella
al PND 112, presentava una prevalente associazione tra resistenza alle
manifestazioni comportamentali disturbate e abbondanza di acido lattico
cerebrale, indipendentemente dal gruppo materno di appartenenza della prole,
suggerendo l’importanza assoluta di questa associazione.
Presi
nell’insieme, tutti i dati emergenti da questo studio dimostrano che un
trattamento delle madri con probiotici esercita un effetto perdurante nel tempo
sulla neuroplasticità della prole e sul metaboloma
dell’asse intestino-fegato-cervello, accrescendo la capacità di resistere allo
sviluppo di disfunzione emozionale indotta da obesità materna.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa
Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito
(utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni
Rossi
BM&L-12 marzo 2022
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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla
International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle
Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale
94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Uno dei campi più affascinanti di questa ricerca riguarda la cooperazione genetica fra il nostro genoma costituito da 20-25.000 geni e il microbioma intestinale, ossia il materiale genetico di oltre 1000 specie, costituito da circa 3.3 milioni di geni: quasi 150 volte il numero dei nostri.
[2] L’opinione di Maes è riportata da Tori Rodriguez in Gut Bacteria May Exacerbate Depression (Sci Am Mind 24 (5): 8, November/December 2013).
[3] Per indicazioni sintetiche sulle azioni di grelina e leptina si veda in “Note e Notizie 02-02-13 come la grelina si lega ai neuroni ipotalamici dell’appetito”. Sulla leptina si veda: “Note e Notizie 26-11-11 La leptina regola il valore di ricompensa dei nutrienti”. Si veda anche: “Note e Notizie 11-05-13 Un meccanismo per iperfagia e obesità da alterazione ormonale”. Grelina e leptina, nei mammiferi, hanno ruoli complessi e bene indagati dei quali si parla in numerose recensioni di studi che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).
[4] Beydoun M. A., et al. Helicobacter pylori Seropositivity and Cognitive Performance Among US Adults: Evidence From a Large National Survey. Psychosomatic Medicine 75 (5): 486-496, 2013. Lo studio si è basato sulla National Health and Nutrition Examination Survey III, Phase 1; le caratteristiche antropogeografiche di provenienza, che in parte coincidono con quelle etniche, negli USA per consuetudine giuridico-politica (lessico della Costituzione) sono impropriamente definite razze.